Testo critico.
Nella dedica di un libro contenente le sue opere, Pericle Fazzini dopo essersi espresso sul conto di Guido Venieri con parole di stima e di lode giunge a definire la pittura di quest’ultimo “Aperta sempre alla vera conclusione”.
Ecco, non crediamo che giudizio più calzante possa definirsi sulla personalità di Guido Venieri, la cui pittura -non mai casuale o artificiosa, né tantomeno accademica o vacua o dispersiva- si segnala, appunto, per la capacità di concludere veramente un discorso artistico, ovverosia di tradurre un progetto d’arte in termini di arte vera.
Per questo, Guido Venieri merita -ampiamente- una giusta attenzione nonché valutazioni adeguate nel campo della pittura contemporanea e della relativa critica, e, questa mostra altro non vuole essere che l’inizio di una segnalazione – da parte nostra più che convinta – della presenza di un autentico artista che opera da oltre 30 anni e che, per un misto di noncuranza, di timidezza e di fierezza insieme, ha sempre evitato di richiamare su di sé l’altrui considerazione. Il Venieri è un autodidatta, formatosi esclusivamente alla scuola della sua stessa divorante passione per l’arte, il quale, avanti di accostarsi alla sua prima tela, disegnò, furiosamente, per sei anni di seguito, e solo quando avvertì di avere stabilito una completa e salda signoria nei confronti del segno, fino a “superarlo e distruggerlo”, come lui stesso afferma, solo allora si sentì maturo per iniziare la sua personale vicenda con la pittura. Una vicenda svoltasi – naturalmente – lungo itinerari fondamentali già percorsi, ma segnata da esperienze assai interessanti ed originali, intessute da acute letture e marcate da una inequivoca autonomia espressiva dell’idea e dell’intuizione pittorica. Immesso in quel filone di cultura intelligentemente portata ad una meditazione sottile sulla possibilità di aprire alla prospettiva del più moderno linguaggio europeo gli elementi più validi della tradizione autoctona, Guido Venieri rivisita, con convinzione e senza esitazioni, il repertorio -anche il più antico -della tradizione figurativa; ma questo egli fa attraverso il filtro di un individuale e forte linguaggio pittorico, tributario si, ma non più che tanto, d’altri moduli espressivi, e comunque sempre alieno da subalternità o da manierismo. Una pittura, quindi, di forte ed intenso spessore, la quale, proprio per la carica emotiva che robustamente la sottende, supera agevolmente il rischio di cadere, allorché tratta, ad esempio, i temi della crocifissione o della natività o della maternità, nel mero esercizio letterario o nel romanticismo, o, peggio, nell’accademia. In effetti quei temi, trattati dalla mano di Venieri, sfuggono al pericolo di essere interpretati come una patetica rielaborazione – anche se formalmente accattivante – di soggetti tradizionalmente vicini alla nostra cultura e sensibilità, ed invece costituiscono gli elementi stessi del suo mondo interiore, sono le trame lungo le quali si sviluppa la sua ricerca sul destino dell’uomo, sono l’occasione e lo spunto delle sue inesauste esplorazioni sulla vita e sulla morte, sulla gioia e sul dolore, sull’amore e sull’odio, sulla serenità e sull’angoscia, sul bene e sul male, su tuttociò, insomma, che è l’uomo. E così, esaminate da questo angolo visuale, le sue grandi tele della Crocifissione e della Natività entrambe declinanti una folla di facce dolenti, ed entrambe ritmate sulla scansione della vita e della morte, non costituiscono l’ennesima evocazione iconografica più o meno fine a sé stessa, ma si rivelano come il mezzo scelto dall’Artista per stendere un potente e drammatico affresco della condizione umana. Disegno, forma e colore sono gli elementi di un solido impianto espressivo che realizza con immediata efficacia il mondo soggettivo di Venieri e concretizza incasticamente la sua tensione spirituale. Un impianto fondamentalmente espressionista, sia per il travaglio interiore che anima intensamente la tela e ne percorre lo spazio come un veemente fiume in piena, e sia per la voluta accentuazione (o esasperazione) delle forme e dei colori, sotto cui pulsano emozioni non altrimenti esprimibili. Forme guizzanti e vigorose, talora anarchiche e sfuggenti o contorte o deformate, sempre straordinariamente vitali, concepite con scarna eppur suggestiva semplificazione, suggerite e proposte da un disegno sobrio e capace di strutturarle con rara essenzialità. Visi, corpi, cavalli, mani, membra, pur depurati da ogni sovrabbondanza naturalistica, pur costretti nell’espressione rapida e sintetica, sono tuttavia estremamente e realisticamente veri e. vivi, si esprimono con forza e suggestione ed esprimono il tumulto dell’anima di Guido Venieri. Il colore, ora scelto nella sua più semplice essenza, ora ordito in sintesi armoniche, si esalta in un ordine compositivo sapientemente organizzato in sequenze, distese con organica coerenza su ogni punto dello spazio (all-over): l’uno e l’altro non si limitano ad assecondare l’idea pittorica, ma ne costituiscono la sua intima essenza.
Guido Venieri è nato, vive ed opera a Grottammare.
Luigi Sammartino (1982).